venerdì 27 Dic, 2024

La guerra commerciale sull’AI

Il 17 dicembre scorso Tecnologia & Innovazione ha presentato il libro “Geopolitica dell’Intelligenza Artificiale” (Feltrinelli 2024) di Alessandro Aresu.

Consigliere scientifico di Limes, Aresu scrive per Le Grand Continent e altre riviste. Ha lavorato per diverse istituzioni, tra cui la Presidenza del Consiglio. Questo libro segue “Il dominio del XXI secolo – Cina, Stati Uniti e la guerra invisibile sulla tecnologia”  e “Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina”. Per l’occasione lo abbiamo intervistato. 

Quali sono i principali fattori che hanno reso gli Stati Uniti e la Cina i leader mondiali nell’ intelligenza artificiale, e come si intrecciano questi fattori con le loro strategie economiche e geopolitiche?

L’intelligenza artificiale non è un mondo separato ma rappresenta un’estensione del processo di digitalizzazione del mondo, grazie a hardware e software che ci consentono di svolgere un numero maggiore di compiti e di funzioni, influenzando un numero crescente di prodotti e industrie. La Cina è emersa come grande potenza manifatturiera e ha creato un certo numero di imprese digitali, oltre ad avere un capitale umano vastissimo, per via della sua popolazione e del suo sistema di formazione.

Gli Stati Uniti attraggono tuttora i maggiori talenti del pianeta, nel loro sistema universitario e di impresa. Buona parte delle principali aziende digitali al mondo sono statunitensi e negli Stati Uniti ci sono maggiori capitali. Sia la Cina che gli USA sono impegnati in un processo di costruzione di data center, e questo rappresenta la dimensione fisica e infrastrutturale dell’intelligenza artificiale, a cui si unisce l’integrazione di queste opportunità per aziende più “tradizionali”, dall’analisi di dati per la logistica portuale alla riduzione dei difetti di produzione all’assistenza per la manutenzione, solo per fare qualche esempio.   

Come altri elementi del digitale, anche l’intelligenza artificiale ha un risvolto militare, quindi i Paesi oltre che negli ambiti che abbiamo già ricordato – industriali, finanziari, di attrazione e organizzazione del talento – competono anche sulle implicazioni militari.

Che ruolo giocano le differenze culturali e normative tra USA e Cina nel determinare i loro approcci all’AI? E come influenzano queste differenze il panorama globale?

Per lo sviluppo dei modelli linguistici, è possibile che l’investimento cinese sia stato rallentato dalla necessità di “affinare” le capacità di modelli dal punto di vista politico, in modo che le tecnologie non potessero rappresentare un pericolo per il controllo da parte del Partito Comunista Cinese, visto che nessuna tecnologia può esserlo.

Le aziende digitali cinesi che operano in vari contesti della filiera, come per esempio Huawei e Hikvision, sono interessate ai risvolti industriali dell’intelligenza artificiale, per supportare settori come il trasporto marittimo o l’estrazione dei materiali e anche il processo consistente di robotizzazione in corso in Cina. 

Dal punto di vista normativo, c’è stata senz’altro l’ampiezza della guerra tecnologica tra Stati Uniti e Cina nelle filiere tecnologiche, e in particolare nei semiconduttori, con gli strumenti giuridici che ne hanno fatto parte negli ultimi dieci anni, dal controllo degli investimenti esteri diretti al controllo degli investimenti esterni, passando per le diverse sanzioni, l’uso politico dell’antitrust, e lo strumento più importante che sono i controlli sulle esportazioni. 

Questa prospettiva influenza in modo significativo il panorama globale, per esempio quando gli USA chiedono ad aziende di Paesi Bassi, Germania e Giappone che hanno un ruolo significativo nella filiera dei semiconduttori di limitare le loro esportazioni in Cina.

L’Unione Europea, dalla sua analisi, ne esce come esclusa – di fatto – dalla competizione AI. È solo una questione di risorse economiche e tecnologiche, o c’è un problema più profondo nella visione e nell’approccio politico dell’UE?

Credo che l’idea dell’UE come “terza gamba” rispetto agli Stati Uniti e alla Cina non riguardi per nulla il mondo del 2024. Gli europei sono 450 milioni in un pianeta ben più vasto, in cui l’industrializzazione si è già da tempo spostata in Asia. Se gli oggetti che costituiscono le nostre vite sono perlopiù prodotti in Asia, e se i mercati finanziari statunitensi valgono molti ordini di grandezza di più di quelli europei, per quale motivo questo luogo del mondo dovrebbe essere un supposto “terzo”? 

Certo, il vecchio continente (compresa l’isola separata dal Canale della Manica) è stato senz’altro la culla del pensiero scientifico moderno e della rivoluzione industriale inglese, e di molto altro. Grandi filosofi, come Leibniz e Leopardi, hanno anticipato molti concetti di cui parliamo oggi quando affrontiamo l’epoca del calcolo. Ora il mondo è diverso. La sola TSMC ha una capitalizzazione superiore all’intera borsa italiana. In questa parte del mondo sono nate pochissime nuove grandi imprese rilevanti. I principali talenti si muovono verso gli USA, non verso l’Europa. 

Quindi, le persone oneste intellettualmente dovrebbero abbandonare il discorso sull’Europa come “terzo” perché, come ho spiegato qui e in vari libri molto più nel dettaglio, non ha alcun senso. Oppure si può continuare, se si vuole, ma è una totale perdita di tempo. 

Dunque anche l’idea di un ruolo della UE come mediatore tra USA e Cina rientra in questa perdita di tempo? 

In primo luogo, non esiste l’UE come entità vera e propria, per profonde divergenze tra i vari membri su aspetti militari o finanziari, e per l’esiguità del bilancio comune. 

In secondo luogo, anche se questa entità ipotetica esistesse in modo più uniforme, non si coglie alcun motivo per cui gli USA o la Cina dovrebbero avere bisogno del suo ruolo di mediazione: perché, esattamente? Perché l’UE e non l’India, o un altro Paese? Quindi, più che una strada auspicabile o meno, è una perdita di tempo. 

Certo, l’UE può teoricamente rafforzarsi. Il Rapporto Draghi contiene moltissime utili indicazioni su come migliorare, se da un lato si riducono le regole a livello europeo e nazionale e se dall’altro si realizzano, e non solo si programmano, investimenti enormi. Inoltre, niente può realizzarsi se non c’è una maggiore capacità finanziaria e nei mercati di capitali. Ricordo, come ho scritto nei miei libri, che perfino in UK le imprese tecnologiche più importanti, Arm e DeepMind, sono state finanziate dagli investitori della Silicon Valley e del Giappone perché non hanno ricevuto abbastanza denaro da inglesi o europei. 

Anche in un ruolo mondiale che non sarà quello di “terza via”, invece di perdere tempo possiamo pensare a cose importanti: la formazione della nostra popolazione, l’attrazione dei talenti internazionali, il sostegno alle nicchie industriali, la digitalizzazione delle industrie tradizionali. 

Quali sono le implicazioni di questa guerra tecnologica per i paesi in via di sviluppo e per l’ordine economico e politico globale? È possibile immaginare un mondo in cui queste nazioni possano affrancarsi dalla dipendenza tecnologica da USA e Cina?

La Cina si auto-definisce ancora un “paese in via di sviluppo”. E in Paesi “sviluppati” abbiamo chiaramente dinamiche di “de-sviluppo”. Basterebbe considerare la questione industriale negli Stati Uniti, il disagio degli Appalachi, eccetera. 

Nell’Asia orientale, se la consideriamo come area che comprende la Cina, Corea del Sud e Giappone, poi l’India, l’ASEAN, abbiamo la maggiore popolazione del pianeta e la principale concentrazione industriale. Una delle questioni cruciali, nella guerra tecnologica tra USA e Cina, è come il potere si redistribuisca in Asia, quali quote di mercato e potenzialità ci saranno nei prossimi 15 anni in Vietnam, Malesia, Filippine, Indonesia e naturalmente India. Questa è la grande storia di sviluppo del nostro tempo, perché può portare nel benessere altre centinaia di milioni di persone. 

In Asia credo si svilupperà di più un nazionalismo tecnologico. Per esempio: già dal 2020 l’India ha bandito numerose app cinesi, tra cui TikTok; il Vietnam vuole il “suo” campione dell’auto elettrica. Poi bisogna considerare il funzionamento delle industrie e le supply chain. La Nigeria non può svegliarsi oggi e dire “bene, oggi faccio la mia NVIDIA” e riuscirci. Non è possibile. Certi attori – per esempio in Sud America e Africa – hanno scelto di avere più smartphone cinesi e più apparecchiature cinesi, per varie ragioni. Quindi alcuni Paesi in via di sviluppo hanno più potenzialità degli altri ma certe dipendenze resteranno comunque. 

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