lunedì 20 Mar, 2023

Quando l’intelligenza artificiale crea le invenzioni

ChatGPT, Dall-E e Midjourney

Sono le più famose, ma le applicazioni che producono risultati – in gergo si chiamano output – in grado di eguagliare e superare la creatività umana, sono tantissime e ogni giorno più raffinate. Macchine capaci di risolvere problemi, fare previsioni, inventare cose nuove. Che siano opere dal valore artistico, apparecchi biomedici, impianti industriali o dispositivi in grado di leggere le nostre emozioni, si basano tutte sui medesimi processi di addestramento e apprendimento dell’Intelligenza Artificiale (AI).  Quando sul mercato compaiono soluzioni a problemi tecnici realizzate con l’AI, cominciano a scricchiolare le tradizionali norme della proprietà intellettuale, e in particolare dei brevetti. Secondo le statistiche WIPO (World Intellectual Property Organization), già nel 2019 erano oltre 334.000 i brevetti rilasciati per invenzioni a cui l’AI ha partecipato con funzioni di assistenza o implementazione. Un numero che può solo crescere e che pone con urgenza una serie di domande.  

Chi è l’autore di un’opera prodotta dall’AI?

l Copyright merita un discorso a sé, che qui non affronteremo. Per quanto riguarda i brevetti e i progetti industriali invece, occorre anzitutto distinguere tra i diversi modi con cui l’AI interviene nel processo di “invenzione”.

La macchina, chiamiamola affettuosamente così, può avere solo una funzione ausiliaria e di verifica, oppure può risolvere un problema identificato dall’umano. Ma può anche individuare essa stessa un problema, come sua azione autonoma. Nei primi due casi – attualmente i più diffusi – vigono le attuali regole. L’autore resta l’umano che ha addestrato la macchina a generare uno specifico output e il brevetto può essere registrato.

Le AI possono essere inventori o titolari di brevetti?

Nel terzo caso invece, quando una macchina trova da sola un nuovo problema e una nuova soluzione, la faccenda si complica. Ma se la macchina fosse davvero in grado di formulare un risultato a partire da un input di elaborazione autonomo, saremmo di fronte a qualcosa di molto vicino alla cosiddetta “singolarità tecnologica”. Cosa che per la comunità scientifica è assai lontana.

Eppure qualche accenno verso questa direzione già si intravede. Ad esempio nell’ormai celebre Artificial Inventor Project, una sorta di “esperimento giudiziario mondiale” dello scienziato Stephen Thaler, che sta cercando di brevettare una serie di ritrovati interamente realizzati da un’AI di sua invenzione, di nome Dabus. 

Per ora gran parte delle corti a cui si è rivolto gli ha dato torto: la macchina non può essere riconosciuta come inventore né come titolare di un brevetto, perché non ha una personalità giuridica, né un nome. Due eccezioni però si sono registrate: una vittoria piena nella Repubblica del Sudafrica e una decisione favorevole – poi però ritirata – della Federal Court dell’Australia. 

Sono interessanti le motivazioni di quella sentenza. In sostanza, diceva, quando è stata definita la parola “inventore” semplicemente l’AI non esisteva, quindi si dovrebbe adottare una concezione evolutiva della lingua. Inoltre, rifiutare una tutela alle invenzioni realizzate da un agente artificiale sarebbe in contrasto con la finalità primaria della disciplina brevettuale, che è proprio quella di stimolare l’innovazione tecnologica. 

Posizione che, per quanto sorprendente, è in minoranza. D’altra parte, è semplicissimo aggirare la regola: si intesta l’invenzione ad un umano. Se non c’è alcun diritto morale da tutelare, nessuno che lo reclami, in fondo, dove sta il problema? 

C’è chi crede che in realtà un’invenzione creata con processo pienamente autonomo da un agente artificiale non sia teoricamente concepibile. Ma la strada, in questo senso, pare già segnata e c’è chi sostiene sia solo questione di tempo. “Il potere di staccare la spina”, ha detto Mario Libertini, Professore Emerito di Diritto Commerciale a La Sapienza di Roma, in occasione di questo seminario dell’Accademia UIBM, “è una giusta indicazione di politica legislativa, non una descrizione della realtà”. Realtà di fatto disomogenea, frammentata fra e all’interno degli stessi mercati. Il timore è che aprire le porte alle invenzioni delle macchine possa condurre a troppe invenzioni, con il rischio di “ingessare” quelle umane. 

Invenzioni delle macchine, requisiti degli umani

Ammesso che un’invenzione generata dall’AI nella pratica possa davvero essere utile, ed è ancora da dimostrare, è vero però che i problemi tecnici non sono in numero chiuso, con un numero chiuso di soluzioni. “L’innovazione è spesso derivata, incrementale”, come ha spiegato l’avvocato Cesare Galli, titolare della cattedra di Diritto industriale nell’Università degli Studi di Parma, nello stesso convegno. L’AI velocizzerà alcuni processi: “Forse ci aiuterà anche a elaborare soluzioni alternative, il cosiddetto designing around, e paradossalmente a sfuggire più facilmente all’ambito di protezione dei brevetti. Ma la concorrenzialità del sistema non viene messa in discussione”. Per Galli la questione è “quale strutturazione utilizza l’AI. Qui l’individuazione di uno standard può risultare problematica e più decisivo, invece, il ruolo del fattore umano e quindi lo spazio per riconoscere un’attività inventiva”.  

Della questione si discute anche a livello europeo. L’European Patent Office ad oggi non riconosce diritti di titolarità alle macchine, ma riconosce tutela alle invenzioni generate dalle macchine.  “Come ogni altra invenzione – si legge nella pagina dell’EPO dedicata a questo tema – per essere brevettabile deve soddisfare i requisiti di novità, attività inventiva e suscettibilità di applicazione industriale. Il carattere tecnico dell’invenzione è importante per valutare se questi requisiti sono soddisfatti”.

Quali dati?

Altro discorso riguarda i dati, materia assai meno astratta. In particolare i dati utilizzati per addestrare le macchine. In questo caso già è possibile intravedere profili problematici: quali dataset vengono utilizzati? Si tratta di materiale libero da diritti o in alcuni casi si tratta di opere già coperte da tutela? In assenza di una regolamentazione nazionale e sovranazionale, ad oggi non possiamo saperlo. 

Ma le domande ormai sono sul tavolo della discussione e un ritorno indietro non è più possibile. L’auspicio, espresso da giuristi, imprenditori e sviluppatori, è che si possa giungere a un intervento legislativo in grado di colmare l’attuale vuoto. Una risposta in grado di tenere insieme tutela e flessibilità, con la consapevolezza che gli strumenti legislativi che fino ad oggi hanno funzionato per gli umani, non vanno bene per i robot. 

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