Viviamo in anni difficili. Anni in cui la singola parola scelta, il vocabolo, la locuzione può essere travisata e male interpretata. Viviamo negli anni del politically correct o meglio detto “del politicamente corretto”. Il punto è che la tendenza ad esasperare questo concetto (estremamente giusto in origine) non porta ad altro se non alla perdita proprio della correttezza alla base di questa ideologia.
Se devo condannare Biancaneve e i sette nani (pellicola storica di Walt Disney del 1937) perché la povera Principessa lava due piatti e cucina per i nani, di “corretto” non c’è rimasto più nulla. Siamo perfettamente in grado di comprendere che un cartone animato degli anni ’30 aveva ancora un’idea un po’ retrograda della figura della donna.
Non c’è bisogno di scendere in piazza e bruciare tutti i VHS Disney che ci sono rimasti in casa. Come tutte le esasperazioni e gli estremismi gratuiti, anche il politically correct deve trovare la giusta via di mezzo. L’espressione “correttezza politica” traccia una linea al di là della quale si instaura un atteggiamento sociale di attenzione e rispetto formale verso tutte le categorie di persone. Parliamoci chiaro: il problema vero è che si parla ancora di “categorie”.
Il problema è a monte!
Non è certo una pellicola del 1937 il problema. Qualsiasi idea quindi, o comportamento che si oppone a questa politica “corretta” appare quindi, per contro, politicamente “scorretta”. Vogliamo parlare di Grease? Pellicola cult degli anni ’70 con John Travolta e da Olivia Newton-John che dipingono uno scenario tipico della fine degli anni ’50.
Ecco Grease è stato da poco definito “sessista, omofobo e misogino”. Ora, invece di andare a demonizzare una pellicola di cinquant’anni fa, perché non ci concentriamo sul qui e ora? Giammai! Concentriamoci su situazioni paradossali come la polemica sterile su un musical vecchio di mezzo secolo. Ribadisco:
Come tutte le esasperazioni e gli estremismi gratuiti, anche il politically correct deve trovare la giusta via di mezzo. E parlo da donna che lavora nel mondo della meccanica. Parlo da persona che ha trascorso la sua carriera all’interno di un contesto prevalentemente maschile.
Tutt’ora mi trovo davanti interlocutori meravigliati del fatto che io sia un’esperta di revisione di transfer. Come se una donna non riuscisse a distinguere una brugola da un cacciavite. Della serie: le donne possono governare uno Stato, sedere alla Corte Suprema, ma non pretendano di conoscere come funzioni un utensile speciale.
Il problema però è Biancaneve che lava i piatti in un film Disney di 85 anni fa. Ma menomale che è arrivato qualcuno a dare una spazzata in quel porcilaio!! Era una donna? Si! …e allora? Avvalora la tesi che siamo in grado di fare tutto noi donne!
Mina la mia autorità? Sminuisce le mie capacità? Urta la mia sensibilità? Che cosa? Una scopa in un cartone animato? Trovo molto più grave che nel 2021 un Direttore di Produzione debba sottopormi ad un vero e proprio “test di ingresso” al nostro primo incontro per il semplice fatto di essere donna e, in quanto tale, non si fida della mia competenza. Forse nella sua mente la donna non è in grado di tirare fuori la macchina dal garage senza fare la fiancata. Forse siamo a questi livelli.
Domande trabocchetto per vedere se so di cosa stiamo parlando e voli pindarici senza alcun fondamento tecnico per vedere se riesco ad accorgermi di alcuni non sensi abilmente piazzati all’interno del discorso. Se ci fosse un uomo al posto mio, dopo i primi due convenevoli d’obbligo e una battuta sul calcio, sarebbero già in reparto a bordo macchina.
Io invece vengo sottoposta a veri e propri interrogatori come se fosse necessario dover dimostrare di essere tecnicamente all’altezza di un uomo. Come se non fosse implicito. Tutti ricordano le missioni NASA di John Glenn e Alan Shepard, ma è stata Katherine Johnson, una donna, a calcolare le traiettorie delle orbite paraboliche, iperboliche, le finestre di lancio e i percorsi di ritorno dei voli del Progetto Mercury.
Glenn e Shepard in prima pagina sui giornali, mentre dietro alla scrivania a garantire loro un posto nella storia, c’era una donna. È in quest’ottica che mi fa sorridere sentire al telegiornale termini come Ministra, Assessora, Cancelliera. Nessuna di noi ha bisogno che trasformiate sostantivi storicamente maschili in femminili per farci sentire all’altezza di un ruolo maschile. Siamo già all’altezza degli uomini. Così facendo si avvalora solo il fatto che del “politically correct”possiamo farne anche a meno se dietro alla parola Assessora rimane un’ombra di sfiducia negli occhi di chi la pronuncia.
Continuiamo ad usare Assessore, visto che la lingua italiana è una delle più belle al mondo e sganciamoci piuttosto da luoghi comuni che lasciano il tempo che trovano. Lavori male tu, lavoro male io. Margaret Thatcher, una delle donne più importanti del ‘900 e più influenti nella politica del Regno Unito è sempre stata indicata come Primo Ministro. Non ha avuto bisogno che le venisse riconosciuta una carica femminile dedicata per guidare il Regno Unito dal 1979 al 1990 segnandone un’epoca.
Se l’avessimo chiamata Ministra, avrebbe fatto diversamente il suo lavoro? Avrebbe avuto meno difficoltà? Avrebbe avuto più consensi? Ne avrebbe avuti meno? No! Avrebbe cambiato la mentalità di chi non l’ha mai ritenuta all’altezza del suo ruolo? Avrebbe fatto la differenza in qualsiasi ambito? No!
“Essere potente è come essere una Signora. Se hai bisogno di dirlo, non lo sei”.
Indovinate chi lo ha detto? Si, Margaret Thatcher, la Lady di Ferro. Vuoi vedermi all’opera? Vuoi vedermi all’opera? Alza il telefono e fissa un appuntamento con me.
E, se posso darti un consiglio, scegli quali battaglie vale la pena combattere.
Questa battaglia la conosco fin troppo bene. La combatto tutti i giorni. La combatto da sempre e ti posso assicurare che non è certo così che salverai il tuo transfer.