24/03/2022
Intervista a Gualtiero Fantoni
Gualtiero Fantoni insegna Processi di produzione innovativi al Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Pisa, è fondatore di Errequadro, un’azienda spin-off dell’Ateneo pisano, e della startup Zerynth.
“Non compiamo gli stessi errori”
Gualtiero Fantoni conosce bene sia il mondo aziendale che quello accademico. Nelle sue risposte delinea quali sono stati i limiti delle imprese nell’adottare il paradigma 4.0, errori o mancanze che in Industria 5.0, focalizzata su una dimensione produttiva umano-centrica e sostenibile, potrebbero riproporsi.
Da un lato, il numero dei docenti universitari non è sufficiente per garantire una formazione all’intera forza lavoro che avrebbe necessità di acquisire le nuove competenze emergenti. Dall’altro una spinta in questo senso ancora tarda ad arrivare dalle imprese, che dalle parole di Fantoni, pare abbiano sofferto di una mancata pianificazione. Non avendo migliorato i “processi prima di digitalizzarli” si sono digitalizzati anche gli sprechi, che paradossalmente potrebbero aumentare nella corsa indotta dalla “moda della sostenibilità” e “dell’elettrificazione ad ogni costo”. Una corsa che deve anche fare i conti con le competenze dei dipendenti.
Perché è necessaria una visione human-centered della tecnologia?
La tecnologia è fatta dall’uomo per l’uomo serve a migliorarne la vita a renderla più sicura e a ridurre
il carico di sforzi fisici e cognitivi a cui altrimenti sarebbe sottoposto. Per questa ragione sia Industria 4.0 e 5.0 vedono l’uomo al centro.
D’altronde il sogno o meglio l’incubo della fabbrica a luci spente teorizzato dal CIM (Computer-Integrated Manufacturing) ha dimostrato di non avere senso. l’uomo è fondamentale sulle linee di produzione, nei magazzini, e nelle attività di ufficio, dove serve vera intelligenza. Il dipendente non rappresenta solo due mani che assemblano, ma piuttosto due occhi che guardano e un cervello capace di analizzare ciò che funziona e ciò che non funziona, e di ricostruire le catene causali al fine di determinare le ragioni ultime di guasti o di individuare possibilità di miglioramento.
In Italia c’è già questa consapevolezza?
A seguito dell’importantissimo piano Calenda, il sistema paese ha compiuto l’errore di invertire il processo formazione del personale e quello di acquisto delle tecnologie necessarie a migliorare i sistemi di progettazione, di gestione e di produzione delle imprese. Il piano Calenda ha infatti anticipato l’acquisto delle tecnologie rispetto all’apprendimento delle stesse, perciò si sono spesso acquistati macchinari in aree della produzione dove questi non facevano la vera differenza, si sono fatti investimenti senza pensare a come integrarli, ci siamo dotati di strumenti che nessuno era in grado di far funzione bene.
E poi non si sono migliorati i processi prima di digitalizzarli, perciò spesso si sono digitalizzati anche gli sprechi, e soprattutto quelli, senza arrivare ai veri benefici del digitale.
All’Industria 5.0 siamo preparati?
È importante che non compiamo gli stessi errori: c’è il reale rischio che si corra dietro alla moda della sostenibilità, dell’elettrificazione ad ogni costo e della circular economy, cercando degli ottimi locali che in realtà sono peggiorativi se analizziamo il sistema nel suo insieme.
Dismettere macchinari funzionanti solamente perché sono alimentati con fonti non rinnovabili ad appannaggio di macchinari nuovi il cui impatto costruttivo potrebbe essere di gran lunga più elevato dei benefici raggiunti è una possibile tendenza che somiglia a misurare il quantitativo di plastica nelle bottiglie dell’acqua, e non pensare che l’impatto vero sul pianeta è dato dal trasporto dell’acqua da regioni o paesi lontani, non dal materiale, peraltro soggetto ad un alto tasso di riciclo.
La visione ecologica dell’Industria 5.0 non può allora essere vista come una ricerca di efficienza di per sé.
Non può, perché altrimenti sbaglieremmo ad inquadrare il problema e poi ad affrontarlo. L’Industria 5.0 ci dice che, in una visione moderna del fare impresa, vanno considerati come paritetici gli obiettivi di fatturato, quindi legati alla produttività, quelli di sostenibilità (in senso lato) e di impatto ambientale, quelli di welfare dei dipendenti e quelli relativi all’innovazione di prodotto e processo. Il modello al quale dobbiamo ispirarci è quindi quello di organizzazioni ambidestre, che sfruttano al meglio le risorse a disposizione aprendosi a nuove opportunità, e che fanno dei dati il loro faro.
Gli obiettivi ed i risultati chiave non misurano perciò soltanto la produttività, i fatturati e i margini ma anche il rapporto tra valore prodotto e impatto generato. Se da una parte il modello tayloristico della produzione ha dato i suoi frutti nel XX secolo e l’ottimizzazione delle operation è stato il solo leitmotiv, dall’altra la strategia fondata sull’aumento dei volumi, sul continuo lancio di nuovi prodotti e sull’incremento delle estensioni di marca non è più sostenibile. Inoltre, il perseguimento di ulteriori incrementi di efficienza, senza radicali ripensamenti di tecnologie e della loro integrazione, diventa estremamente difficile.
Dunque, i dati e la loro analisi assumono ancora un ruolo centrale in Industria 5.0. Come IOT, Big Data ed AI possono garantire la resilienza dei processi produttivi?
Acquisire i dati in maniera rapida, efcace completa ed intelligente, e saperli trasformare nel minor tempo possibile in informazioni ad alto valore aggiunto utili per prendere decisioni migliori è sicuramente il punto di partenza non quello di
arrivo per un’industria.
Purtroppo, anche nel caso di Internet of Things, Big Data e Artifcial Intelligence ci sono due approcci entrambi pericolosi: da una parte quello fideistico che porta a pensare che le tecnologie da sole siano salvifiche e possano risolvere tutti problemi a cui l’impresa deve far fronte, dall’altra l’approccio luddista per il quale il nuovo e le tecnologie sono nemiche dell’occupazione e ci renderanno stupidi schiavi delle macchine.
Direi che né una fazione né l’altra portano a qualcosa di positivo e ad una crescita sostenibile. È solo conoscendo le tecnologie, i loro punti di forza, i loro costi ed i rischi di insuccesso che si può fare un uso consapevole e corretto delle stesse e integrarle in un ambiente lavorativo dove divengono abilitanti per il pensiero critico.
L’università italiana è pronta a fornire le competenze necessarie per stare al passo con il nuovo paradigma?
Il mito della distanza fra mondo industriale e universitario ha alcuni tratti di verità, ma al mondo universitario in questo caso può essere solamente imputata la lentezza, non la proattività. Ci sono corsi che trattano i temi della sostenibilità da almeno 10 anni, ci sono progetti sullo smaltimento dei RAEE (Apparecchi Elettrici ed Elettronici, ndA) che ne hanno
almeno 20. Oggi per una serie di ragioni tutti si svegliano e chiedono corsi e competenze specialistiche. Ma per fare uno o una specialista ci vuole la formazione di base prima e contenuti sui temi verticali poi.
Cosa diversa è quella che riguarda l’upskilling ed il reskilling della forza lavoro sui temi della sostenibilità ambientale, ma anche del digitale, delle tecnologie abilitanti Industria 4.0. In questi casi l’università può fare poco in quanto il corpo docente è sottodimensionato e gli incentivi per questo tipo di formazione sono assenti, perciò la formazione dei lavoratori e dei manager ricade completamente sulle spalle dei docenti che lo fanno in maniera destrutturata e limitata ad un basso numero di ore.
Oltretutto la sostenibilità o l’economia circolare non sono esattamente uguali alla matematica o alla fisica insegnata nei corsi universitari: spesso non esiste neppure un modello riconosciuto sulla base del quale calcolare gli impatti ambientali o i delta che si possono avere paragonando due processi. Perciò occorre capire cosa le imprese ed i policy maker stanno chiedendo all’accademia: fate corsi su qualcosa non ancora ben definito (e su questo ci potremmo anche stare), fateli domani e fateli senza che vi abbiamo mai supportato in passato. Direi che le premesse di una collaborazione fruttuosa non ci sono ancora.
Nella formazione dei futuri ingegneri quanto si tiene conto dell’impatto delle nuove tecnologie a livello sociale ed ecologico?
Sicuramente gli ingegneri sono esposti alle nuove tecnologie, ma i driver di scelta sono sempre stati orientati alla produttività (tempi e costi) e alla qualità del prodotto. Pochi sono i casi (ingegneria chimica ed ingegneria ambientale sono stati i primi) in cui i corsi di laurea di ingegneria si sono dotati di insegnamenti dedicati all’analisi degli impatti, allo studio del ciclo di vita di un prodotto in termini di footprint, ecc. Il perché è semplice: in un numero limitato di ore di insegnamento e di studio, soprattutto specialistico, viene privilegiato ciò che il mercato chiede. E le posso assicurare che ancora la pressione delle imprese in questa direzione è scarsa.
La società civile sopravvaluta la reattività del sistema industriale e sottovaluta le difficoltà di rimanere competitivi sul mercato quando solo pochi adottano modelli sostenibili e che magari fanno scendere anche la produttività insieme agli impatti. Il ruolo dell’università è comunque quello di accogliere le richieste della società, farle proprie e alzare il livello culturale o di consapevolezza dei suoi studenti che poi diverranno lavoratori/lavoratrici, manager, imprenditori e decisori così che essi possano essere la leva di un cambiamento profondo. Si tratterà dunque di un processo molto lungo.
Le è capitato invece di tenere corsi di formazione continua in azienda?
Formare personale aziendale è sempre molto importante per un docente universitario che dagli studenti dei corsi di laurea è visto come depositario di un sapere assoluto, mentre nella formazione degli adulti questo divario si riduce e i lavoratori o i manager ti sfidano su problemi reali nei quali mettere alla prova le teorie ed i modelli. La formazione continua su Industria 4.0 è stata ricca di spunti e molto formativa anche per me, che come docente ho arricchito i materiali didattici e migliorato i contenuti e reso più fluido e fruibile il materiale da apprendere.
E sul 5.0?
Dunque, ho già fatto dei corsi in cui integravamo risorse umane ed ambientali all’interno del paradigma, e penso che dovremmo lavorare sugli imprenditori e sui manager prima che su tutta la forza lavoro. È la direzione a dare gli obiettivi di alto livello che considerino parametri di consumo delle risorse e di impatto ambientale, è la direzione che fa cambiare e che può innescare una trasformazione necessaria per le future generazioni.
Solo integrando tecnologie ed i dati (Industria 4.0) con gli obiettivi di sostenibilità (economica delle imprese, sociale dei lavoratori ed ambientale) si può riuscire a trovare un ottimo assoluto che traguarda i tre obiettivi contemporaneamente.