Se umani e macchine si contendono il lavoro
L’impatto dell’automazione sull’occupazione italiana, tra scenari preoccupanti e rassicurazioni, alla ricerca di risposte definitive
Willie Wonka e la fabbrica di cioccolato, avete presente? Il primo film è del 1971, quello celebre con Gene Wilder, e fra un dolce fantastico e una bibita incredibile lanciava, con la funzione di lieto fine, un tema potentissimo: l’automazione. Infatti il padre di Charlie, il piccolo protagonista, rimasto disoccupato perché il suo lavoro è stato sostituito da una macchina, al termine dell’avventura ritrova il suo impiego ma con una mansione diversa, cioè addetto alla manutenzione della macchina che lo aveva rimpiazzato. In una breve ma significativa sintesi, già più di 50 anni fa si cercavano risposte a una domanda oggi stringente: l’automazione cancella posti di lavoro o ne produce di nuovi?
La questione, più complessa di così, coinvolge economisti, scienziati politici, ingegneri, sociologi e filosofi. Il dibattito è fra chi sostiene che l’automazione produrrà un impatto pesantissimo sull’occupazione e chi ritiene, al contrario, che il processo sarà meno traumatico e per ogni di lavoro perso ne verranno creati altri, nuovi e più qualificati.
Lo scorso anno un gruppo di ricercatori dell’Università di Trento ha pubblicato uno studio sui rischi di automazione delle occupazioni, in particolare quella italiana. Mariasole Bannò, Emilia Filippi e Sandro Trento hanno analizzato le 800 professioni italiane con l’obiettivo di quantificare l’impatto dei robot sul mercato del lavoro in un futuro prossimo.
I ricercatori hanno adottato due differenti approcci: il primo considera le probabilità di automatizzare una professione nel suo complesso (occupation-based approach), il secondo invece, considera il lavoro come somma di varie mansioni, e calcola quindi le relative probabilità di automazione di ogni singola attività (task-based approach). Secondo i due diversi approcci in Italia sarebbero a rischio, nei prossimi anni, rispettivamente tra 3,87 milioni di persone (18%) e 7,12 milioni (il 33%): numeri da capogiro. Come sono stati calcolati?
Innanzitutto i ricercatori hanno individuato quali sono i compiti che non possono essere codificati, quindi automatizzati, e che sono legati a capacità prettamente umane, in particolare: la percezione, la manipolazione, l’intelligenza creativa e l’intelligenza sociale. Hanno quindi distinto tra automazione effettiva e potenziale, prendendo in considerazione anche la particolare natura del tessuto produttivo italiano, composto da piccole e medie imprese poco inclini a rapidi processi di innovazione. La differenza tra i risultati dei due approcci, spiegano i ricercatori, risiede nel fatto che «anche le professioni che secondo l’occupation-based approach presentano una probabilità di automazione elevata sono composte da attività lavorative che sono difficili da automatizzare». Tuttavia, anche i risultati basati sul task-based approach, più bassi, mostrano come l’Italia rientri tra i Paesi in cui la quota di lavoratori ad alto rischio di sostituzione è tra le più alte. Un dato, secondo lo studio, che potrebbe dipendere dalla distribuzione dei lavoratori nelle professioni che, secondo i due approcci, presentano una probabilità più o meno elevata.
In base a questa impostazione, le professioni con probabilità di automazione alta riguardano i settori dei trasporti e della logistica, il supporto d’ufficio e amministrativo, la produzione, i servizi e la vendita. Le professioni con una probabilità di automazione bassa, invece, comprendono management e finanza, la formazione e l’istruzione, l’assistenza sanitaria e alla persona, l’arte, l’ambito giuridico-legale. I media e l’artigianato infine, presentano una probabilità media di automazione.
Per la prima volta in assoluto in Italia i ricercatori hanno anche esaminato il rischio di sostituzione distinto fra lavoratori e lavoratrici. «La percentuale di lavoratori uomini ad alto rischio di sostituzione è superiore rispetto a quella riguardante le lavoratrici, a prescindere dall’approccio seguito». La ragione è tutta culturale: i lavori di cura pesano maggiormente sulle spalle delle donne, ma sono anche quelli meno automatizzabili. Se l’automazione quindi non è di per sé un “rischio” per le donne, il loro lavoro resta ancorato a una visione antica e affatto liberatoria.
Di tutt’altro tenore invece sono i risultati di una ricerca condotta da un team di scienziati (Università di Trento, Global Labor Organization e ISPAT) sull’impatto dell’automazione sull’occupazione italiana nel periodo 2011-2018. «Smettila di preoccuparti e ama i robot», suona più o meno così l’eloquente titolo dello studio, pubblicato lo scorso anno.
L’indagine ha messo in luce importanti differenze legate alle mansioni. Da un lato le categorie potenzialmente esposte al rischio di sostituzione non sembrano aver risentito, nel loro complesso, dell’introduzione dei robot. D’altra parte, invece, sono decisamente aumentati i posti di lavoro legati alle stesse macchine: programmatori, installatori, manutentori. Quasi il 50% in più in meno di dieci anni, con un aumento significativamente maggiore nelle aree in cui si è fatto più ricorso ai robot industriali. In particolare lo studio evidenzia che un incremento dell’1% nell’adozione di robot porta a un aumento dello 0,29% nella quota locale di operatori di robot, un effetto che da solo spiega interamente l’aumento di circa il 50% di questi lavoratori. L’idea di fondo è che se le imprese investono di più nell’automazione, aumenta anche il numero di lavoratori che svolgono le attività complementari (come il padre di Charlie), un fenomeno noto come reinstatement effect. Secondo l’indagine inoltre, l’introduzione di robot industriali nel nostro paese negli ultimi dieci anni pare non abbia generato una contrazione delle occupazioni ad elevato contenuto routinario. Al contrario, i risultati suggeriscono che nelle zone a più intensa robotizzazione la quota di occupazioni routinarie di tipo cognitivo sia addirittura aumentata.
Se le stime, affidate a calcoli sempre più raffinati, in grado di tener conto della complessità del mondo contemporaneo, non sono ancora in grado di dare una risposta definitiva, restano però valide alcune domande di fondo.
Le macchine saranno in grado, un giorno, di sostituire l’intera gamma delle attività umane? La “piena automazione”, da alcuni teorizzata come fine ultimo di una società umana libera dal lavoro, è un’utopia o una possibilità concreta, seppur remota? E infine, qual è il fine ultimo dell’automazione?
Del resto il fenomeno è inarrestabile, ma il fine può solo deciderlo l’umanità. E se il fine ultimo è migliorare le condizioni di vita delle persone – e della società – ecco che le stime, per quanto imprecise, restano necessarie. Serve, scrivono Bannò, Filippi e Trento, «un’idea anche approssimativa del fenomeno che possa guidare la formulazione di politiche adeguate per promuovere l’adozione di tecnologie di automazione proteggendo al tempo stesso i lavoratori potenzialmente a rischio». Perché la perdita di lavoro genera conflitto, che a sua volta porta instabilità, che a sua volta si traduce in crisi economiche. Visione a lungo termine, flessibilità pragmatica, capacità di ascolto e dialogo si riveleranno quindi gli strumenti fondamentali per traghettarci in un futuro più o meno automatizzato. Un futuro fatto anche di incertezze, cambiamenti climatici, scarsità di risorse: sfide difficilissime per gli umani, ma forse, non per le macchine che inventeremo.