Negli ultimi anni, l’intero panorama industriale ha attraversato una significativa trasformazione grazie all’avvento del paradigma Industria 4.0, che ha condotto ad una digitalizzazione e automazione avanzata dei processi produttivi. Attualmente ci troviamo già in una fase di transizione verso un nuovo standard, l’Industria 5.0, che introduce ulteriori elementi di innovazione e cambiamento.
L’Industria 5.0 si concentra sull’integrazione e la collaborazione tra esseri umani e macchine, mettendo in primo piano l’aspetto umano nella produzione industriale. Questo nuovo approccio mira a combinare le capacità delle tecnologie digitali con le competenze e l’intuizione degli operatori umani, favorendo una sinergia tra l’automazione e la creatività umana.
In questo scenario, la figura dell’Innovation Manager assume un ruolo determinante nella gestione del cambiamento e nella promozione dell’innovazione all’interno delle organizzazioni aziendali.
Per capire in che modo abbiamo raggiunto l’Ing. Francesco de Santis, manager esperto di innovazione e Presidente della Commissione Innovazione Tecnologica dell’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Roma.
Come sta cambiando il business, cosa significa oggi industria 4.0 e perché è importante saperla affrontare?
Industria 4.0 è il nuovo paradigma tecnologico, declinazione diretta della quarta rivoluzione industriale, che prevede un modello di produzione completamente automatizzato e interconnesso.
Storicamente abbiamo assistito ad altre tre rivoluzioni industriali. La prima, che ha segnato il passaggio dall’artigianato alla produzione industriale, inizia con la scoperta della macchina a vapore nel 1784. La seconda si ebbe sul finire dell’800, quando al vapore subentrarono nuove forme di energia, quali l’elettricità e il petrolio, che consentirono l’inizio della produzione di massa. L’inizio della terza viene fatto coincidere con il 1969, l’anno della nascita dei PLC (Programmable Logic Controller), i primi computer per l’industria che hanno consentito l’automazione di numerosi processi e la creazione dei primi robot industriali.
La Quarta Rivoluzione Industriale è la nuova fase che sta portando enormi cambiamenti in tutti i settori produttivi. Diversi Paesi, fra cui l’Italia, la stanno adottando con decisione, cercando altresì di incentivarla al fine di imporla come standard. Ciò che si va delineando è un modello produttivo che utilizza congiuntamente tecnologie già esistenti, che si stanno evolvendo velocemente, e non in una singola applicazione, ma con incrementi marginali contestuali.
Se nei casi precedenti non era complesso identificare in cosa consistesse la fase industriale, definita dall’applicazione di una nuova tecnologia, l’attuale “mosaico di tecnologie” ci impone un esercizio analitico completo, ponendo il focus sulla rinnovata modalità organizzativa di produzione, sia di beni sia di servizi, basata sull’integrazione e relazione tra impianti e tecnologie digitali.
Lo scopo è fornire alle macchine e ai prodotti una cyber-coscienza in modo da renderli parte di un sistema. Ciò è possibile tramite la sensorizzazione delle macchine, collegando la parte fisica di materie prime, semilavorati e prodotti finiti al loro duale digitale, e allo stesso modo integrando la parte fisica dell’azienda ai sistemi informativi. I dati raccolti possono essere analizzati per ottenere informazioni e conoscenza in grado di migliorare tutti gli aspetti di gestione aziendale, dalla produzione, alla logistica, agli acquisti, al marketing, alle vendite.
Transizione digitale e transizione ecologica sono compatibili?
Transizione digitale ed ecologica possono, anzi, devono essere combinate insieme.
Il modello Industria 4.0 ha raggiunto uno stadio di maturità tale da permetterci di cominciare a parlare già della prossima fase dell’industrializzazione, caratterizzata dalla cooperazione tra macchine ed esseri umani: la collaborative industry o anche Industria 5.0.
Il rapporto denominato “Industria 5.0”, pubblicato dalla Commissione Europea nel mese di gennaio 2021, ha presentato la necessità di velocizzare la predetta trasformazione, utilizzando il digitale e il green per risanare l’ambiente e l’economia, portando l’industria ad essere più sostenibile e resiliente. Sempre la Commissione Europea lo ha ribadito nella Relazione di previsione strategica 2022. La combinazione di transizione digitale e transizione ecologica è essenziale per raggiungere la carbon neutrality nel 2050. Robotica e Internet of Things possono migliorare l’efficienza delle risorse e rafforzare la flessibilità di sistemi e reti. In generale le tecnologie digitali potranno aiutarci a rendere più sostenibili i settori più impattanti: energia, trasporti, edilizia, industria e agricoltura.
A puro titolo di esempio, la gestione dei dati basata su blockchain è un’opzione per favorire il progresso verso un’economia più circolare. I passaporti digitali dei prodotti consentono una migliore tracciabilità dei materiali, dei componenti e della catena del valore e rendono i dati più accessibili. L’introduzione dei digital twins facilita l’innovazione e la progettazione di processi, prodotti o edifici maggiormente sostenibili.
In che modo l’Innovation Manager può aiutare le aziende in questo percorso?
L’Innovation Manager è un professionista esperto in ambito aziendale, con una forte esperienza in processi di innovazione e digital transformation.
Ritengo che il ruolo principale dell’Innovation Manager sia quello del Facilitatore; selezionare Partner, valutare opportunità, sviluppare idee progettuali. È altresì un “Evangelista dell’Innovazione”, in grado di facilitare efficacemente l’introduzione e lo sviluppo di nuove metodologie atte a favorire il cambiamento culturale in tutte le Business Unit.
Il Manager dell’Innovazione deve possedere capacità di leadership e change management, un carisma adeguato per motivare e spingere al cambiamento vincendo le tipiche resistenze delle organizzazioni mature. Personalmente mi scontro spesso con culture aziendali particolarmente radicate, sull’intero territorio nazionale; gli ostacoli da superare sono molteplici, dalla sindrome del “not invented here” al “si è sempre fatto così”.
In generale, un bravo IM deve essere innovativo, creativo, curioso e con un’ampia apertura mentale: capacità basilari per promuovere e stimolare la ricerca di nuove opportunità.
Come si è sviluppato il suo percorso professionale?
Sono un Ingegnere Gestionale con abilitazione all’esercizio della professione di Ingegnere Industriale. Presso l’Università di Tor Vergata ho sviluppato con il supporto dell’allora preside della Facoltà di Ingegneria, Agostino La Bella, un modello di valutazione del capitale intangibile e dei processi di gestione della conoscenza all’interno delle organizzazioni aziendali. Dal 2008 al 2013 ho lavorato in una società di consulenza direzionale e strategica ricoprendo il ruolo di Innovation Manager in numerosi progetti di innovazione organizzativa e di marketing, R&S e trasferimento tecnologico.
Dal 2013 svolgo l’attività di Manager libero professionista, collaborando stabilmente con centri di ricerca pubblici e privati, CNR, Enea, Dipartimenti Universitari, reparti R&S di PMI e grandi imprese. Seguo imprese in tutta Italia interessate all’introduzione del paradigma 4.0 nei loro processi produttivi, occupandomi anche dell’asseverazione degli impianti tecnologicamente avanzati, necessaria per l’ottenimento dei benefici fiscali previsti nel nostro Paese.
Sono autore e ideatore di “InnovIng”, programma avanzato di formazione per Innovation Manager. Da settembre 2013 sono il Presidente della Commissione Innovazione Tecnologica dell’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Roma. Dal 2022 sono membro del Comitato di Indirizzo del Corso di Studi in Ingegneria Gestionale Magistrale presso l’”Università Niccolò Cusano” di Roma e Partner di Ricerca del Centro di Ricerca privato CRF.
Sempre nel 2022 ho ottenuto la certificazione di facilitatore con il Metodo LEGO® SERIOUS PLAY®. Lo scopo del Metodo LEGO® SERIOUS PLAY® è cambiare il formato delle riunioni e dei processi aziendali tradizionali, solitamente con basso coinvolgimento e partecipazione, in un modello dove tutti partecipano attivamente alle idee e al processo decisionale.
Quali sono le più comuni barriere nell’innovazione e come è possibile abbatterle/aggirarle?
Ha sempre suscitato la mia attenzione una frase di Alvin Toffler, saggista e futurologo statunitense: “Gli analfabeti del XXI secolo non saranno quelli che non sanno leggere e scrivere, ma quelli che non saranno in grado di imparare, disimparare e reimparare”.
La trovo illuminante perché induce a riflettere su quanto sia necessario incoraggiare le persone a “disimparare” ciò che non aiuta più a comprendere i cambiamenti in atto, imparando invece a cogliere le opportunità offerte dall’attuale momento storico. Elevato turnover del personale, cambi repentini dei mercati, aspettative crescenti dei clienti, digitalizzazione degli scambi, crisi dei componenti e delle materie prime, ci mettono in difficoltà se cerchiamo risposte nei comportamenti che abbiamo sempre attuato. L’altra faccia della medaglia è spesso una cultura aziendale “chiusa”, mancanza di fiducia nell’ecosistema, la paura di perdere il controllo della proprietà intellettuale, una struttura organizzativa poco ricettiva.
In primis, senza un business model chiaro è difficile rendere scalabile la propria idea e trasformarla in un business remunerativo. Il modello di business è una componente chiave nel determinare la ricezione della propria proposta di valore. Spesso le aziende, soprattutto startup, non investono risorse e tempo sufficiente nella sperimentazione e analisi del proprio piano. In altri casi, il problema risiede proprio nell’idea o nel prodotto stesso. La qualità di un’idea o di un prodotto si misura dalla sua capacità di rispondere ad un need del mercato. Vendere un prodotto che non serve, che non soddisfa alcuna esigenza concreta del mercato potenziale è uno dei motivi principali per cui un’azienda “fallisce”.
Partendo da un’idea innovativa finalizzata alla realizzazione di prodotti competitivi e ad un business vincente, vi sono inoltre delle prerogative imprescindibili alle quali bisogna attenersi, primo fattore su tutti è il tempo di uscita sul mercato, il cosiddetto time to market (TTM). È bene che è il TTM sia il più breve possibile per non permettere a possibili competitors di attingere dalla nuova azienda e replicare il prodotto/servizio rapidamente avvalendosi degli alti mezzi a disposizione (mezzi economici, organizzativi e strutturali assenti in principio nella nuova start-up).
Tutte le aziende sono oggi estremamente attente al controllo e al contenimento dei costi, in particolare in un momento di difficoltà generalizzata come quello attuale. Questo significa nella maggior parte dei casi, ridurre gli sprechi e ottimizzare l’utilizzo di risorse importanti, quali i capitali, le attrezzature, la tecnologia. All’interno di piccole realtà, in primis start up tecnologiche, inoltre, si hanno forti difficoltà ad accedere a fonti esterne di conoscenze qualificate e affidabili, siano esse di natura tecnica o commerciale.
Importante quindi saper gestire le risorse a disposizione, essere flessibili, pronti a cambiare e reagire per tempo in modo da rispondere prontamente alle nuove esigenze, cercando di ottimizzare le risorse a disposizione. Per quanto le grandi aziende abbiano meno problemi nel reperire fondi, molto spesso tendono a spendere molto più del dovuto a causa di una mancanza di flessibilità interna che allunga i processi interni e comporta maggiori spese rispetto ad una startup.
Ma ritengo che la principale barriera sia ancora la ridotta abilità nel fare networking, saper creare le giuste relazioni per accedere alle risorse, umane e finanziarie, trovando i partner chiave per guidare lo sviluppo del proprio prodotto e l’accesso al mercato. Unitamente allo sviluppo del network esterno, le difficoltà di modelli di collaborazione efficaci nei vari reparti dell’azienda, la scarsa gestione dei conflitti, l’importanza del lavoro di squadra.
Al termine dei miei corsi di formazione, mi piace sorprendere i discenti in aula leggendo il capitolo sulla Volpe del libro “Il Piccolo Principe”. Nelle intenzioni dell’autore Antoine de Saint-Exupéry, la chiave di lettura di tutto il libro è la capacità di creare relazioni. Le relazioni continueranno ad essere la variabile strategica intangibile maggiormente importanti