18/08/2020
Editoriale #2
Ricerca, informazione, economia. La pandemia ha avuto effetti su ogni ambito della società, a partire dal modo in cui la scienza comunica con il pubblico. Nei primi cinque mesi di emergenza covid-19 sono stati pubblicati 9.500 articoli scientifici. L’urgenza di diffondere gli avanzamenti della ricerca sul virus ha scatenato una repentina crescita delle pubblicazioni preliminari anche in campo biomedico, talvolta portando alla diffusione dei risultati direttamente su social network. Se da un lato ciò ha permesso di risparmiare tempo essenziale destinato al lavoro di peer review, il rischio è tuttora quello di alimentare la confusione dei lettori. “Gli scienziati – ha scritto Massimo Sandal, ricercatore in Biologia molecolare – dovranno imparare a comunicare al pubblico in modo diverso, e dovranno farlo in collaborazione con chi si occupa professionalmente di comunicazione della scienza”. Gli avanzamenti della ricerca sono infatti resi noti in un’infosfera in cui, nei mesi della pandemia, si è diffusa un’enorme quantità di notizie sul virus, più o meno attendibili: una situazione che già a febbraio l’OMS definiva come “infodemia”. Eppure, nonostante la richiesta di informazione relativa al virus sia cresciuta esponenzialmente in questi mesi, le testate giornalistiche sempre di più si sostengono attraverso gli abbonamenti dei propri lettori. Il rischio è che la buona informazione arrivi solo a chi può permettersi una sottoscrizione a pagamento, acuendo quello che Philip Di Salvo, giornalista e ricercatore, ha chiamato “journalistic divide”. Le testate stanno adottando questo modello di business a fronte dei tagli alle entrate pubblicitarie causati dalla crisi. Agli inizi di luglio l’Istat ha reso noto che circa un terzo tra micro e piccole imprese rischiano la chiusura entro l’anno, un rischio che invece è “significativo” tra le medie (22,4%) e le grandi (18,8%) imprese. Oltre la metà delle pmi interrogate in un sondaggio dell’osservatorio della fintech SumUp, hanno cercato di fronteggiare il calo delle vendite attraverso soluzioni digitali, potenziando l’e-commerce, avviando servizi di delivery, adottando assistenti virtuali, introducendo o valorizzando i pagamenti cashless. Anche l’industria sta valutando i benefici di una trasformazione digitale, anche in termini di sicurezza, guardando alle soluzioni fornite dalla realtà virtuale e internet delle cose per il remote monitoring delle attività di fabbrica. Non stiamo assistendo solo al boom dello smart working, dunque, ma anche la nascita dell’industrial smart working.
Al netto delle distopie, quello che ci aspetta non sarà però un mondo interamente digitale. Stiamo andando verso quella che Luciano Floridi, ordinario di Filosofia ed Etica dell’informazione presso l’Oxford Internet Institute, ha definito come “onlife”, dove “digitale e analogico, online e offline si mescolano”.
Quando non si tratterà più di rispondere all’emergenza, il lavoro online e quello offline dovranno essere considerati da parte di industrie e governi sotto una nuova luce. La stessa luce che in parte, in questi mesi, ha posto all’attenzione il lavoro domestico non retribuito di tanti lavoratori lavoratori e, soprattutto, lavoratrici.